Il “Palio del Grano” di Caselle in Pittari ideato e realizzato dalla Pro Loco in collaborazione con l’Associazione Terra Madre al fine di valorizzare la cultura contadina è giunto alla quindicesima edizione. È un viaggio nella memoria della ruralità.
Alla gara sono iscritte otto squadre in rappresentanza di otto rioni del paese (Chiazza, Madonna ra Grazia, Forgia-Mardedda, Castieddu, Scaranu, Taverna, Urmu, Pantanedda) con essi sono gemellati altrettanti Comuni denominati “compari”. . Il gemellaggio tra le diverse comunità, circa trenta, è istituito sulla scorta delle relazioni che un tempo intercorrevano tra le persone dei diversi paesi e di successivi contatti. Nel corso degli anni la manifestazione ha assunto una rilevanza nazionale. Si sono superati i confini cilentani, i rioni si sono gemellati, altresì, con vari comuni d’Italia.
Non è solo una gara di mietitura, ma un laboratorio didattico – culturale. Difatti con il “campo di grano” che dura una settimana, i contadini impartiscono lezioni sulla coltivazione, sull’arte della mietitura, e di tutti i processi tradizionali quali: molitura e panificazione. E’ un momento laboratoriale dove si osserva e si sperimenta. Si conosce e si apprende. Insomma un “viaggio” dalla terra alla tavola. Giunto a Caselle in prima mattinata con Vito Sansone, ci ha accolto l’amico Giuseppe Jepis Rivello.
Già dal primo momento lo scenario che si è presentato ai miei occhi .. unico…magico…un salto indietro nel tempo. Una preghiera in chiesa, la partenza del corteo, i colori delle contrade, il vocio, l’allegria, il folklore..le ceste con le vivande sul capo delle donne, gli abbracci..l’essere tutt’uno. Nulla fa presagire che si tratta di una gara…ma la competizione c’è ed è giusto che ci sia…difatti con grande civiltà, arrivati al “campo” …ci siamo contesi l’ambito stendardo …simbolo di vittoria. Ad ogni squadra è stata assegnata una pista di grano larga 5 m. e lunga 100 m., che con un percorso a staffetta, ha dovuto mietere. Il Palio del Grano viene vinto dalla squadra che per prima miete la propria porzione di campo, osservando comunque i giusti criteri di mietitura e di sistemazione delle fascine di grano.
Quest’anno ha vinto la contrada “Castieddu”. Un’esplosione di gioia ha accompagnato la corsa del caposquadra fino a che non ha conficcato nella “vurredda” (covone) il vessillo del rione.
A noi della contrada “Urmo” è stato assegnato il premio “miglior ristuccio” che significa migliore mietitura e raccolta di tutte le spighe.
Il palio del grano di Caselle resta un evento dei più significativi dell’intero territorio cilentano…un rito ancestrale. Un sentirsi tutt’uno con la natura e un momento di grande intensità umana e relazionale. Grazie al rione “Urmo” e a Caselle tutta per l’accoglienza. A gara ultimata ogni relazione umana è stata vissuta all’insegna di grande rispetto, civiltà e solidarietà.
É arrivato il momento della trebbiatura (fase conclusiva).. i covoni di ciascuna partita vengono slegati e disposti su una superficie circolare ( aia).
Una coppia di buoi col giogo trascinano una grossa pietra, in modo da frantumare la paglia e sgretolare le spighe. Di tanto in tanto i buoi si fermano e i contadini coi tridenti rivoltavano i covoni non ancora sbriciolati (a vutata di l’aria). Seguirà la spagghiata, non appena mina u ventu: coi tridenti si butterà in alto la paglia che verrà trascinata poco distante mentre il grano cadrà sul posto. Alla fine, quando la quasi totalità della paglia sarà andata via, si userà la pala per liberare il grano dalla pula residua e si passerà alla cernita. Infine alla misura, “rito” culminante.
L’arrivo dei buoi per la “pisatura”…
un tuffo nei tempi andati..la voglia di rivivere la genuinità e la salubrità…la riscoperta di una sana ruralità. Con l’antico anche il moderno…
difatti con l’ausilio delle trebbie si è provveduto alla “trebbiatura”….così il chicco è uscito dalla pula (involucro che riveste il grano)…passato e presente…tutto ha “parlato”..in questa giornata vissuta in amata terra cilentana.
Poi è iniziata la festa…sull’aia di quel podere che per mesi ha visto il grano crescere..si è condiviso con tutti un momento di cordialità, di ospitalità, di allegria, di relazioni, di grande umanità.
Quando… tempo fa Gaetano Ferrara chiese la mia partecipazione a “Sapri in Maschera 2019”, respinsi la proposta…ma lui non si arrese. Difatti ricontattatomi e comunicatomi il tema…l’ho trovato così interessante che non mi è rimasto altro…che confermare la partecipazione alla presentazione del carro “La commedia dell’arte”: una ricostruzione del Teatro San Carlo con le maschere classiche, un’apoteosi di colori, musica e arte. L’opera sarà presente ad Aprile al Carnevale del Cilento a Marina di Camerota.
Gaetano è un fiume di entusiasmo ed energia che travolge chiunque. “La commedia dell’arte” è stato un carro fuori concorso al Carnevale Saprese. L’opera è una sua idea, essendo lui appassionato di arti sceniche. Gaetano nasce in una famiglia… speciale. La mamma Del Duca Elena e il papà Gerardo sono delle persone solari, rispettose e di grande umanità. Nutro una grande stima per questa famiglia.
Un grande lavoro di squadra ha permesso la realizzazione del carro, simbolo del #teatroitaliano.
La Commedia dell’Arte è un genere teatrale molto particolare che si sviluppò in Italia nel XVI Secolo. La caratteristica principale che contraddistingue questo genere di spettacolo la si ritrova nell’assenza del copione. Gli attori, anziché imparare a memoria battute prestabilite, basavano la propria interpretazione su un canovaccio (trama) e improvvisavano in scena, seguendo le regole di quella che oggi viene chiamata “recitazione a soggetto”.
Gli attori della Commedia dell’Arte erano caratterizzati da eccellenti doti mimiche, buona parlantina, un’essenziale fantasia e la capacità di sincronizzarsi perfettamente con gli altri attori in scena. Tali spettacoli si svolgevano nelle piazze e nelle strade, su semplici palchetti e anche alla luce del sole. Molto sovente gli attori si rifacevano a delle ‘maschere’, ovvero personaggi le cui caratteristiche erano note ai più (Arlecchino, Pulcinella, ecc).
Per distinguersi dalla gente comune, gli attori indossavano maschere, costumi variopinti e arricchiti di elementi vistosi e non era raro che utilizzassero strumenti musicali per richiamare l’attenzione dei passanti e dare scansione ritmica alle scene improvvisate sul momento.
Col passare del tempo gli attori si organizzarono in compagnie che, composte da dieci persone (otto uomini e due donne), venivano guidate da un capocomico.
In particolare la presenza delle donne in scena fu una vera e propria rivoluzione: prima della nascita della Commedia dell’Arte, infatti, i ruoli femminili erano interpretati da uomini.
Gaetano per facilitarmi il compito ha scritto un testo interessante:
“O voi che ascoltate Da terra e sui balconi Il gran grido di questo buffone Ricordar degg’io in questo breve momento che la vita è si fugace Che niun con serietà debba questo verbo ascoltar. Glorificar si deve questa vanità Alto elogio alla più cocente realtá Per cui, o voi, che qui vi apprestaste Vestitevi di vanità e di null’altro che serva Toglietevi le vesti della vostra essenza Baldoria, canti e motteggi Danzare e strimpelii È la festa della Vanezza. Non oggi è sovrana la ragione Ne il senno può oggi conferir parola Ma il teatro la più grande Verità Vi mostri la vostra vera maschera. Perche alfin quando morte sovverà Troppo tardi sarà per goder di questo momento. E voi che dietro le quinte attendete il mio segnale Non più a lungo aspettar si convien Tirate le funi e muovete i fili al mondo mostrate la verità!”
Nel retro del carro ha trovato spazio il teatro dei burattini…
Non so voi, ma io mi sono divertito. Ringrazio tutti, in particolare la Pro Loco e l’amministrazione comunale.
I “Sassi” sono due quartieri di Matera, il Sasso Caveoso e il Sasso Barisano, formati da edifici rupestri costruiti nelle cave naturali della Murgia materana e abitati fin dal Paleolitico. Dal 1993 sono stati dichiarati patrimonio dell’umanità UNESCO. I sassi sono un esempio di sostenibilità ambientale. Grazie a questi ambienti ipogei scavati nel tufo, l’uomo ha dimostrato come sia possibile sottrarre spazio alla natura vivendo in armonia con essa.
Il centro storico è una famosa meta per il cinema. Alberto Lattuada nel 1953 girò “ La Lupa“. Mel Gibson ambientò nei Sassi gli esterni de “La Passione di Cristo“, luogo che ritenne a suo dire “perfetto” come ambientazione di Gerusalemme. Tante altre pellicole nazionali e internazionali presentano i Sassi come sfondo tra cui “Il Vangelo secondo Matteo” di Pier Paolo Pasolini, “Cristo si è fermato a Eboli” di Francesco Rosi, “Ben Hur” di Timur Bekmambetov e “Wonder Woman” di Patty Jenkis.
I Sassi di Matera sono stati iscritti nella lista dei “patrimoni dell’umanità” dall’UNESCO nel 1993. Sono stati il primo sito iscritto dell’Italia meridionale. L’iscrizione è stata motivata dal fatto che essi rappresentano un ecosistema urbano straordinario, capace di perpetuare dal più lontano passato preistorico i modi di abitare nelle caverne fino alla modernità. Costituiscono un esempio eccezionale di accurata utilizzazione nel tempo delle risorse fornite dalla natura: acqua,suolo,energia. Nel rapporto della commissione che ha verificato la rispondenza del luogo ai criteri di valutazione dell’UNESCO la candidatura di Matera risponde ai seguenti criteri:
«Criterio III: I Sassi ed il Parco delle chiese rupestri di Matera costituiscono una eccezionale testimonianza di una civiltà scomparsa. I primi abitanti della regione vissero in abitazioni sotterranee e celebrarono il culto in chiese rupestri, che furono concepite in modo da costituire un esempio per le generazioni future per il modo di utilizzare le qualità dell’ambiente naturale per l’uso delle risorse del sole, della roccia e dell’acqua. Criterio IV: I Sassi ed il Parco delle chiese rupestri di Matera sono un esempio rilevante di un insieme architettonico e paesaggistico testimone di momenti significativi della storia dell’umanità. Questi si svolgono dalle primitive abitazioni sotterranee scavate nelle facciate di pietra delle gravine fino a sofisticate strutture urbane costruite con i materiali di scavo, e da paesaggi naturali ben conservati con importanti caratteristiche biologiche e geologiche fino a realizzare paesaggi urbani dalle complesse strutture. Criterio V: I Sassi ed il Parco delle chiese rupestri di Matera sono un rilevante esempio di insediamento umano tradizionale e di uso del territorio rappresentativo di una cultura che ha, dalle sue origini, mantenuto un armonioso rapporto con il suo ambiente naturale, ed è ora sottoposta a rischi potenziali. L’equilibrio tra intervento umano e l’ecosistema mostra una continuità per oltre nove millenni, durante i quali parti dell’insediamento tagliato nella roccia furono gradualmente adattate in rapporto ai bisogni crescenti degli abitanti.»
Nella città e lungo le Gravine del Parco della Murgia Materana si contano circa 150 chiesette scavate nella roccia.
La mia visita a Matera coincide con la commemorazione del “quattro novembre“. A distanza di un secolo dalla fine della prima guerra mondiale è stata celebrata questa mattina anche a Matera la cerimonia della Giornata dell’Unità d’Italia e delle Forze Armate. La data del quattro novembre è legata ad una memoria contraddittoria, che se da un lato risveglia l’esultanza per la fine di quell’immane conflitto, ricorda anche il dolore del nostro Paese per le seicentomila morti causate dalla guerra. In questa giornata, infatti, si è ricordata l’unità della nostra nazione e onorato l’impegno e i sacrifici delle nostre Forze Armate. E’ compito nostro, oggi, attualizzare quei valori: pace, benessere, tolleranza ed identita’ culturale; quali frutti di quella sanguinosa guerra.
Matera è tra le città decorate al valor militare per la guerra di liberazione per la quale le è stato insignito il premio della “Medaglia d’argento al valor militare” per i sacrifici delle sue popolazioni durante la seconda guerra mondiale . Tale onorificenza venne conferita il 1º settembre 1966 e consegnata tre anni dopo dal Ministro della Difesa, il quale decorò della medaglia il gonfalone della città e scoprì una lapide con la seguente iscrizione:
«Matera prima città del Mezzogiorno insorta in armi contro il nazifascismo addita l’epico sacrificio del 21 settembre 1943 alle generazioni presenti e future perché ricordino e sappiano con pari dignità e fermezza difendere la libertà e la dignità della coscienza contro tutte le prevaricazioni e le offese.»
Medaglia d’argento al valor militare:
«Indignati dai molteplici soprusi perpetrati dal nemico, gruppi di cittadini insorsero contro l’oppressore e combatterono con accanimento, pur con poche armi e munizioni, per più ore, senza smarrimenti e noncuranti delle perdite. Sorretti da ardente amor di Patria, con coraggio ed ardimento, costrinsero l’avversario, con aiuto di elementi militari, ad abbandonare la Città prima dell’arrivo delle truppe alleate. Città di Matera, 21 settembre 1943.»
Il 19 agosto 2016 è stata conferita alla città la “Medaglia d’oro al valor civile”, consegnata dal Presidente della Repubblica durante una cerimonia svoltasi al Quirinale il 17 novembre 2016:
«Durante gli ultimi giorni di permanenza dei tedeschi in città, la popolazione materana, sempre più esasperata dalle distruzioni, dai saccheggi e dai soprusi compiuti dagli invasori che si preparavano alla ritirata, si rese protagonista di atti di eroismo e di martirio per contrastare la violenza perpetrata dagli occupanti, sia nel centro urbano che nelle campagne, che causò rastrellamenti e numerose vittime innocenti. Splendido esempio di identità comunitaria e alto spirito umanitario, orientati ad affermare i valori di libertà e giustizia. Settembre 1943 – Matera.»
Matera ha ricevuto dalla Città metropolitana di Firenze il Premio“Giorgio La Pira”:
“Per la sua capacità di proiettarsi nella comunità internazionale, per la sua determinazione e apertura al cambiamento. Per la tenacia nel capovolgere stereotipi culturali che le ha valso la designazione a Patrimonio culturale Unesco e a Capitale europea della cultura del 2019. In particolare per l’impegno congiunto di cittadini, associazioni e istituzioni a favore di iniziative e progetti inclusivi che ne fanno una delle città simbolo di un sistema culturale integrato”.
Carlo Levi e la sua denuncia “…Arrivai ad una strada che da un solo lato era fiancheggiata da vecchie case e dall’altro costeggiava un precipizio. In quel precipizio è Matera… Di faccia c’era un monte pelato e brullo, di un brutto color grigiastro, senza segno di coltivazioni né un solo albero: soltanto terra e pietre battute dal sole. In fondo… un torrentaccio, la Gravina, con poca acqua sporca ed impaludata tra i sassi del greto… La forma di quel burrone era strana: come quella di due mezzi imbuti affiancati, separati da un piccolo sperone e riuniti in basso da un apice comune, dove si vedeva, di lassù, una chiesa bianca: S.Maria de Idris, che pareva ficcata nella terra. Questi coni rovesciati, questi imbuti si chiamano Sassi, Sasso Caveoso e Sasso Barisano. Hanno la forma con cui a scuola immaginavo l’inferno di Dante… La stradetta strettissima passava sui tetti delle case, se quelle così si possono chiamare. Sono grotte scavate nella parete di argilla indurita del burrone… Le strade sono insieme pavimenti per chi esce dalle abitazioni di sopra e tetti per quelli di sotto… Le porte erano aperte per il caldo, Io guardavo passando: e vedevo l’interno delle grottesche non prendono altra luce ed aria se non dalla porta. Alcune non hanno neppure quella: si entra dall’alto, attraverso botole e scalette”…..
“…Dentro quei buchi neri dalle pareti di terra vedevo i letti, le misere suppellettili, i cenci stesi, Sul pavimento erano sdraiati i cani, le pecore, le capre, i maiali. Ogni famiglia ha in genere una sola di quelle grotte per abitazione e ci dormono tutti insieme, uomini, donne, bambini, bestie… Di bambini ce n’era un’infinità… nudi o coperti di stracci… Ho visto dei bambini seduti sull’uscio delle case, nella sporcizia, al sole che scottava, con gli occhi semichiusi e le palpebre rosse e gonfie. Era il tracoma. Sapevo che ce n’era quaggiù: ma vederlo così nel sudiciume e nella miseria è un’altra cosa… E le mosche si posavano sugli occhi e quelli pareva che non le sentissero… coi visini grinzosi come dei vecchi e scheletrici per la fame: i capelli pieni di pidocchi e di croste… Le donne magre con dei lattanti denutriti e sporchi attaccati a dei seni vizzi… sembrava di essere in mezzo ad una città colpita dalla peste…”
(C.Levi “Cristo si è fermato ad Eboli”)
Con la pubblicazione nel 1945 del libro di Carlo Levi comincia per Matera una nuova storia: una storia che fa di Matera e dei Sassi un monumento della civiltà contadina e un’intangibile testimonianza storico-culturale.
Gli intellettuali italiani, gli italiani tutti, sapevano che Matera esisteva ma vederla così “… nel sudiciume e nella miseria, è un’altra cosa…” Il “Cristo” di Levi faceva vedere anche l’altra Matera, una Matera in cui viveva una civiltà di valori soffocata dalla miseria, valori che potevano e dovevano essere riconosciuti e conservati.
Il “Cristo” di Levi diveniva simbolo di un risveglio della coscienza intellettuale italiana, uno strumento nelle mani delle forze tese ad un riscatto del sottosviluppo meridionale.
La Cattedrale, in stile romanico pugliese, fu costruita nel XIII secolo sullo sperone più alto della Civita che divide i due Sassi, sull’area dell’antico monastero benedettino di Sant’Eustacchio, uno dei due santi protettori della città. All’esterno sono da notare il rosone a sedici raggi ed il campanile alto 52 metri; all’interno, degni di nota un affresco bizantino della Madonna della Bruna, un presepe cinquecentesco dello scultore Altobello Persio ed un affresco raffigurante il Giudizio finale.
Prende il nome dal suo fondatore, Domenico Ridola, il Museo Archeologico Nazionale di Matera, cui è dedicata l’omonima sala che conserva documenti delle sue attività di medico, parlamentare e archeologo.
Il Museo è suddiviso in tre sezioni. Nella sezione Preistoria sono esposti reperti litici realizzati dall’uomo del paleolitico inferiore, l’homo erectus. il Paleolitico medio e superiore è rappresentato da oggetti in pietra sempre più specializzati. Significativi reperti provenienti dai villaggi neolitici della Murgia testimoniano, a partire dal VI millennio a.C. l’introduzione dell’agricoltura e lo strutturarsi di insediamenti stabili.
Nella sezione Magna Grecia pregevoli corredi funerari e oggetti votivi narrano la vicenda umana sviluppatasi nelle epoche successive nei santuari e nei centri abitati indigeni, poi ellenizzati, dislocati sulle alture dominanti le vallate fluviali, tra cui Timmari e Montescaglioso. Una eccezionale collezione di vasi proto lucani e apuli a figure rosse (V e IV secolo a.C.) testimonia l’evoluzione della ceramografia magno greca.
Di recente sono stati aperti al pubblico due nuovi interessanti spazi espositivi: l’uno riproduce una cavità carsica le cui pareti mostrano esempi di arte parietale, l’altro propone una capanna neolitica in scala reale con strutture annesse.
La sala dedicata al fondatore del museo, Domenico Ridola, conserva documenti delle sue attività di medico, parlamentare, archeologo.
Ed eccoci all’interno di Palazzo Lanfranchi, monumento seicentesco fatto costruire da Frate Francesco da Copertino per ordine del Vescovo Vincenzo Lanfranchi tra il 1688 e il 1672, che originariamente ha ospitato il Seminario diocesano, ma attualmente “Museo nazionale d’arte medievale e moderna della Basilicata” e sede degli uffici della Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici della Basilicata.
Matera città d’arte e di cultura…
finanche sotto gli archi delle vie si incontrano opere…
e memoria.
Ecco perché Matera a Capitale Europea 2019. Il documento ufficiale pubblicato sul sito web della Commissione Europea, tradotto in italiano.
1. La commissione giudicante ha apprezzato l’analisi strategica di Matera, come piccola città tra quelle europee di media grandezza, con un pubblico relativamente passivo nei confronti della cultura importata dalle grandi città. L’intento di essere in prima linea tra chi si impegna per rendere accessibile la cultura, specialmente attraverso nuove tecnologie e apprendimento, è visionario. Conduce ad un ambizioso, sebbene rischioso, programma. 2. La giuria ha notato il forte supporto della Regione e delle municipalità locali, sia in termini finanziari che di partecipazione ai progetti in programma. La reale disponibilità del 70% dei finanziamenti, a prescindere dall’esito della competizione, è una chiara dimostrazione della centralità del programma ECOC per lo sviluppo della città e della Regione. È uno dei più chiari esempi, in anni recenti, di come il programma di un candidato sia parte di un piano strategico più che della semplice partecipazione ad una competizione. 3. Il programma ha molte caratteristiche forti. La commissione è stata impressionata dalla vivacità e dall’innovazione dell’approccio artistico. Ci sono diversi progetti che hanno il potenziale di attirare un più ampio e variegato pubblico europeo, tra cui la grande mostra del Rinascimento Meridionale La giuria ha riconosciuto il coinvolgimento delle istituzioni e organizzazioni culturali tradizionalmente intese e specialmente il cambiamento di usi e costumi già in corso. Questo approccio potrebbe avere una larga applicazione dal punto di vista delle istituzioni culturali europee. 4. La commissione ha inoltre riconosciuto la forte focalizzazione sulla tecnologia digitale che nel 2019 sarà molto più prevalente nei settori culturali e sociali rispetto ad ora. Il programma oscilla tra un canale tv online, la digitalizzazione di archivi del patrimonio e club di coding per ragazzi. Questo rappresenta il guardare avanti attraverso un approccio innovativo per un’ECOC. 5. La commissione è stata impressionata da come quella che è stata inizialmente un’iniziativa dei cittadini si sia sviluppata in un elemento centrale formale della città e della pianificazione della Regione. Questa connessione della partecipazione dei cittadini con obiettivi culturali e sociali è continuata nel programma di sviluppo. 6. La politica di inclusione sarà graduale e pone l’accento sul portare coloro i quali sono spesso esclusi dalla cultura all’interno di progetti comuni piuttosto che creare diversi progetti paralleli. È evidente l’iniziativa che coinvolge persone anziane e giovani attraverso un processo digitalizzazione. La commissione ha apprezzato la forte intenzione di mettere in primo piano la partecipazione attiva e il co-design. Il progetto di candidatura prevede anche un bando aperto. Questo spesso porta a correre il rischio che le priorità locali dominino i criteri per il titolo di Capitale Europea. La commissione ha apprezzato l’uso di mediatori culturali e una commissione di garanzia per elaborare insieme le idee acquisite da bandi aperti rendendole progetti più convincenti. 7. I progetti evidenziati nel dossier dimostrano una buona diffusione di partner e co-produzioni europee. Ci sono progetti che coinvolgono artisti e operatori culturali provenienti dal Mediterraneo orientale e del Sud. Sono inclusi aspetti culturali europei con caratteri comuni come ad esempio la luce, i rumori e le città rurali abbandonate. Il dossier è più debole nell’esplorare la diversità tra le culture europee che permetterebbe ai cittadini di Matera possano conoscerla e apprezzarla. 8. La giuria ha dubbi riguardo la capacità di Matera di gestire il grande numero di progetti e eventi che una Capitale Europea delle Cultura deve prevedere. Il dossier riconosce queste mancanze, infatti la necessità di strutture capienti è uno degli obbiettivi principali nel settore della cultura e della pubblica amministrazione. Durante la spiegazione del dossier la commissione è stata informata di un progetto per la formazione di un certo numero di responsabili di progetto che è andato a dissipare, ma non completamente, tali preoccupazioni. La commissione è stata comunque colpita da questo progetto come esempio di un modo innovativo di lavorare attraverso nuovi metodi più aperti (es. il programma di rafforzamento dei servizi pubblici di Matera). 9. La giuria ha considerato l’intenzione di incrementare il turismo da un numero di 200 mila a un numero di 600 mila visitatori annui e i possibili sviluppi per il fragile ecosistema regionale. La stessa è stata informata e rassicurata grazie ad una ricerca che afferma che 600 mila è un numero di visitatori sostenibile. 10. Le previsioni finanziarie sono considerevoli e oltre il 70% delle risorse finanziarie necessarie per l’attuazione del dossier sono già state fornite dalla Fondazione, indipendentemente dal risultato della competizione. L’intento di coinvolgere i cittadini della città e della regione che emigrano, riconoscendogli il ruolo di ambasciatori e di fonte di raccolta fondi, è stato riconosciuto innovativo. (traduzione a cura di V. De Nittis, P. De Ruggeri, V. Ventura, V. Vaccaro)
Vi ho documentato il mio itinerario…ma a Matera, tanto c’è da visitare. La visiti e ti entra nel cuore. Una città che evoca atemporalità, silenzio, lentezza e un istintivo rispetto. Un paesaggio rurale insieme ad una città pittoresca, come la defini Carlo Levi.
Era il ventiquattro ottobre che in Facebook pubblicavo questo post:
“Stazione di Vallo della Lucania (ore 20,15) – Aspettando il treno per rientrare a casa, ho osservato a lungo questo cane che all’arrivo di ogni convoglio si agita. È come se aspettasse qualcuno. È rimasto deluso anche all’arrivo del mio treno, non è sceso il suo padrone. Se qualcuno lo riconosce cerchi di recuperarlo.”
Il ventisette, pubblicavo il seguente:
“ALLE VOLTE CI SI CHIEDE PERCHÉ LA GENTE NON EVIDENZIA, NÉ DENUNCIA ALCUNE COSE…
Oltre tremila condivisioni tra il mio profilo personale e Trekking TV, migliaia di visualizzazioni, commenti sensati e non. Chiarisco in via definitiva, non curante di quanti mi hanno addebitato inadempienza e poca sensibilità, che ho fatto tutto quanto ho potuto. Vi lascio comunque immaginare i commenti con giudizi gratuiti su tremila e più condivisioni. Il cane non mostrava segni di sofferenza e a mio avviso mai avrei potuto sottrarlo ad eventuale padrone. Appreso dai commenti ai post che il cane era in zona da un mesetto e che qualcuno gli ha finanche attribuito il nomignolo di “Bus”, è stato chiaramente evidente l’abbandono . Ho contattato chiunque fosse in zona affinché si soccorresse l’animale. Non avendo avuto riscontri, ieri persolmente mi sono recato sul posto, purtroppo, non l’ho trovato. Premesso che continuerò a fare ulteriori sopralluoghi al fine di ritrovarlo e trovargli una sistemazione, non mi sento in alcun modo responsabile di omissione o quant’altro. Oggi, dopo aver trovato tra i commenti un annuncio di smarrimento, ho provveduto a pubblicare un ulteriore post augurandomi che il cane smarrito fosse il medesimo del mio filmato. Alle volte ci si chiede: perché la gente non evidenzia né denuncia alcune cose? Ecco ..da troppi commenti è emerso che l’insensibile sarei stato io e non chi eventualmente ha abbandonato l’animale. Chiarisco infine, che nel ruolo di Blogger e collaboratore a testata web, è mio dovere evidenziare un problema non risolverlo. Ringrazio quanti stanno collaborando e nell’attesa di conoscere le sorti dello splendido esemplare, con grande stima saluto tutti.”
Il ventinove, ho pubblicato questo:
“Il mio intento era quello di segnalare …ed evidenziare il problema dell’abbandono. Preso di mira dalla “gogna mediatica” mi sono improvvisato soccorritore. Ho avuto modo di scoprire il mondo degli animalisti… che … prima o poi descriverò in un articolo. Chi mi segue sa bene che amo gli animali e la natura…ma non ho mai pensato di sostituire con quel mondo… l’uomo, l’umanità, le relazioni civili e sentite. Sapevo, già in principio, appena pubblicato il video, che sarei stato “pasto” di chi è integralista.Un abbraccio di cuore a quanti hanno capito il messaggio. Vi scriverò”
Ed eccomi qua a riassumere una storia che mi ha fatto molto riflettere sul rapporto uomo-cane e sui rapporti umani. Non dico che sia normale incontrare un cane libero, ma che in questo territorio si incontrino facilmente capita spesso. Più che di abbandono, trattasi piuttosto di incustodia, tant’è che verificando di persona i luoghi, mi sono reso conto che tante sono le masserie con cani a custodia di greggi o semplicemente a guardia della proprietà. Quindi essendo quasi consuetudine lasciare alcuni cani liberi, e ripeto, avendo notato che il cane versava in apparenza, in buone condizioni fisiche, non mi sono allarmato. Con il mio post volevo semplicemente segnalare al proprietario la presenza del cane in stazione e nel contempo avviare un processo di sensibilizzazione alla custodia degli animali. Questo in parte credo sia avvenuto, data l’alta visibilità dei post. Ma come tutti voi sapete la storia ha creato equivoci e scontri, come spesso accade per qualsivoglia argomento si tratti sui social. Lungi da me l’idea di scontrarmi con una parte del cosidetto “mondo degli animalisti”, ma è pur vero che essendo stato giudicato di leggerezza, esibizionismo, insensisibilità e quant’altro, rientra nei miei diritti respingere simili accuse, e condanno fortemente posizioni integraliste. Ritengo inaccettabile qualsiasi mancanza di rispetto verso la mia persona e verso tutti gli esseri umani, per sostenere posizioni animaliste. E con questo non dico che l’umano non ha inadempienze o leggerezze. Ho come l’impressione che si stia perdendo il lume della ragione, seppur di grande compagnia e di esempi di fedeltà, ritengo che nessun animale, nemmeno il tanto nobile cane, possa sostituire l’essere umano, il cui comportamento può essere discutibile ma non necessariamente va massacrato.
Nella relazione uomo-animale è necessaria una disciplina in cui l’animale riacquista la soggettività, dimostrando che non è un oggetto privo di intelligenza, di emozioni, autoconsapevolezza, ma è soggetto di una vita, di un modo peculiare di stare al mondo. E’ in questo pensiero che vedo l’autonomia e la liberta’ del cane e di tutti gli animali, che hanno il diritto di coabitare con l’uomo e l’ambiente, ma che in nessun caso possono sostituire l’uomo e le relazioni umane.
Il cane che ho incontrato quella sera e che mi ha ricordato la storia di Hachiko, ha un padrone ma nel contempo gode di autonomia e libertà.
A conclusione di questo mio articolo vi riporto la storia di Hachiko, una storia di fedeltà e di libertà, esattamente come quella di cui sono stato testimone.
“La storia di Hachiko è forse una delle testimonianze più incredibili di quanto sublime possa essere l’amore di un cane. Hachiko, il cui nome vero era Hachi (ovvero “8”, considerato in Giappone un numero fortunato), fu acquistato nel 1924 dal professore universitario Hidesaburō Ueno che lo portò con sé da Odate (la sua città natale) a Shibuya. Ogni mattina, il cane aveva l’abitudine di accompagnare il suo padrone alla stazione ferroviaria. Hachiko si sedeva lì con pazienza fino alla fine della giornata, pronto ad accoglierlo al suo ritorno. Questa felice routine venne rotta nel 1925, quando Ueno morì improvvisamente al lavoro a causa di un ictus – lasciando Hachiko in attesa alla stazione, a guardare i treni passare e sperando in una riunione che non sarebbe mai avvenuta. Ogni giorno Hachiko si recava alla stazione di Shibuya dove attendeva invano il suo Ueno. Con il passare del tempo, il cane attirò l’attenzione dei pendolari e la sua storia iniziò a diffondersi. Nel corso dei 10 anni successivi, il cane fedele ha continuato ad aspettare il suo padrone ogni giorno, fino a quando morì a 11 anni l’8 marzo del 1935, ritrovato in una strada di Shibuya. La notizia fece il giro del Giappone. Venne dichiarato un giorno di lutto nazionale per ricordare Hachiko e quel gesto di estrema fedeltà nei confronti del padrone. Il corpo del cane venne poi preservato tramite tassidermia ed esposto al Museo Nazionale di Natura e Scienza, ma alcune ossa sono state sepolte nel cimitero di Aoyama, accanto alla tomba del professor Ueno.”
Nessun umano bloccò Hachiko, che continuò a vivere in libertà e per dieci lunghi anni si recò sul luogo dove aveva accompagnato l’ultima volta il suo padrone.
( La piccola Asia Bianco – Scuola Teatro San Carlo di Napoli)
Con grande fatica, alla fine si riesce ad esprimere ciò che si ha dentro…
quasi una ribellione dell’anima.
( Giusy Armida e Luigi Fortunato nel Piccolo Principe)
Si esprime con il corpo, ciò che il romanzo di una vita non potrebbe.
( Attilia Jen Maiese)
(Luigi Fortunato)
Costruire un grande spettacolo non è facile. Occorre una grande sensibilità artistica e non solo.
Giusy Armida riesce a raccogliere intorno a se tutto un mondo.
Ecco perche lo fa…
Quando tre anni fa ….accettai di accompagnarla in questo suo percorso…mi promisi di non lasciarla mai sola.
E’ forse per questo che ho accettato il ruolo di cattivo…dopo il vescovo in Notre Dame de Paris….Jafar…
Ho lasciato passare dei giorni prima di scrivervi…Chi fa teatro, conosce bene le difficoltà che si hanno per “entrare” nel “personaggio” e farlo rivivere; come sa bene che è ancora più difficile “uscirne” e ritrovare se stesso. C’è da dire che a lungo. . resterà, un po del personaggio…nell’attore.
Mi duole, aver dovuto constatare l’assenza della stampa cilentana…presente in ogni dove…tranne qui: in un “impegno sociale”. Il pubblico ha gradito …e questo è ciò che conta.
Consapevole della libertà di espressione, che il ballo sa donare e del sogno che appartiene al teatro…non mi dilungo. Per ringraziare tutti …ringrazio voi, che sempre ci seguite.
In una tiepida sera di giugno…la voglia di uscire era tanta, due le opzioni, una passeggiata al chiaro di luna o una serata a teatro?
Titubante…alla fine ho scelto il teatro. Mi sono recato all’Auditorium comunale “Arch. Giuseppe Guida”, dove era in programma “1828 LA RIVOLTA DEL CILENTO” della Compagnia Artisti Cilentani Associati di Pisciotta. In scena: Giuseppe Brancato, Vincenzo Albano, Gennaro Ciotola, Paolo Puglia, Marco Mondi, Danilo Napoli, Rosita Celenta, Giovanna Navarra,Simona La Porta, Alina Di Polito (regista-attrice). Direttore artistico: Mauro Navarra. Il mio paese conserva una lunga tradizione teatrale, una cultura, almeno così pensavo. Non avendo mai visto alcun lavoro della suddetta compagnia, sebbene la fama mi fosse arrivata tramite stampa locale e nazionale e recensioni, ieri sera è stata la prima esibizione che ho visto. Il rischio di non vederla è stato alto…se non fosse che nel teatro vigono delle regole. Una di queste è che lo spettacolo, generalmente, va tenuto anche in presenza di un solo spettatore. Per fortuna non ero solo, ma nemmeno eravamo in tanti. Vero è che si è creata una empatia tra i pochi spettatori presenti e gli attori. Una intimità, un tutt’uno, dove non è stato facile stabilire distanze e confini emozionali. Dal primo momento, come d’incanto, sono stato rapito e proiettato nella storia. Una storia che ho vissuto intensamente, trattandosi dei moti cilentani, pagine coinvolgenti e note a tutti. Promotore dei moti cilentani del milleottocentoventotto fu il canonico Antonio Maria De Luca, a cui proprio il mio paese, Celle di Bulgheria, diede i natali. Da subito mi ha colpito la professionalità degli artisti. La ricercata e raffinata gestualità, la dizione, la concentrazione. Una concentrazione mai venuta meno, sebbene in platea fossimo in pochi. A mio sommesso parere, uno spettacolo “pulito”, senza alcuna “sbavatura”. Un tema storico “alleggerito” da una trasposizione scenica mai monotona, e, da una sapiente regia a cura di Alina Di Polito, magistrale finanche nella sua interpretazione.
Lascio “parlare” alcune immagini e video dei momenti più salienti dello spettacolo.
Sento, dal profondo del cuore, il bisogno di congratularmi con l’intera compagnia “Artisti Cilentani Associati”. In particolare con Alina e Rosita Celenta, che già conoscevo e che in questa sede hanno riconfermato professionalità e doti umane di grande spessore.
Il teatro, come tutte le forme d’arte, è cultura, arricchimento, crescita.
Scriveva Arthur Schopenhauer:
“Non andare a teatro è come fare la toiletta senza specchio”.
E’ per questo, e, per il forte richiamo che viene dalla passione per le arti sceniche, che ho preferito trascorrere una serata a teatro, anziché una tranquilla passeggiata in una tiepida sera di giugno. Ho acquisito la consapevolezza che nel teatro, così come nella vita, c’è sempre da imparare. Guardarsi allo specchio (ritornando all’aforisma di schopenhauer) non sempre è atto di vanità o di sicurezza, ma occasione di riflessione per riconoscere eventuali inestetismi e provare a correggerli, oltre, ad essere occasione di confronto e di conoscenza di se e dei propri limiti…e quindi umiltà.
Come già scritto nei precedenti articoli, “Il cammino della fede” prevede quattro itinerari da percorrere con gli alunni dell’istituto agrario di Sapri. Sono tre le discipline scolastiche: scienze motorie, scienze religiose e scienze ambientali che vedono impegnati i relativi docenti nell’illustrare i percorsi e accompagnare gli alunni verso la conoscenza del territorio, del camminare quale stile di vita sano e mettersi in contatto con la propria sensibilità e religiosità. Questo di oggi è il terzo itinerario: Maria SS. di Pietrasanta a San giovanni a Piro (SA).
Il patrimonio storico e artistico di S. Giovanni a Piro comprende quindici cappelle che delineano un vero e proprio itinerario di fede. Tra tutte emerge, per posizione ed importanza, la Cappella dedicata a Maria SS. di Pietrasanta, situata all’incirca a 2 km dal centro abitato e a 650 mt. sul livello del mare.
Prima di visitare il Santuario si è deciso di fare una tappa al pianoro di Ciolandrea, ad accoglierci troviamo don Pietro Scapolatempo, che ci indica anche il percorso da seguire.
Il Pianoro di Ciolandrea è situato sulla sommità della Costa della Masseta. Un grande sguardo sul Golfo di Policastro, sulla costa lucana e quella calabra. Da qui è chiaramente visibile il Cristo di Maratea, e nelle giornate primaverili la sagoma dello Stromboli incornicia il paesaggio regalando ogni volta una nuova emozione. Oggi tutto questo non è possibile in quanto vi è foschia, ma è pur sempre uno spettacolo.
Nel mio girovagare mi imbatto in una coltivazione di lupini (Lupinus albus), una pianta della famiglia delle Fabaceae. Sono antichi legumi conosciuti fin dai tempi degli Egizi e dei Maya. Venivano coltivati già quattromila anni fa nelle regioni che si affacciano sul Mediterraneo, prima dai Greci e successivamente dai Romani.
A dar vita al luogo anche un gregge di capre.
Nell’ammirare il panorama non sono mancate domande da parte dei ragazzi …
A questo punto iniziamo il percorso trekking che ci condurrà al Santuario.
Ogni tanto una pausa…e una lezione in campo.
Ed ecco un nido di “processionaria”. Si tratta di un insetto altamente distruttivo per le pinete poiché le priva di parte del fogliame, compromettendone così il ciclo vitale. Inoltre, durante lo stadio larvale tale insetto presenta una peluria che risulta particolarmente urticante per vari animali, compreso l’uomo.
La processionaria del pino attacca tutte le specie del genere Pinus ma mostra una certa preferenza per Pinus nigra e Pinus sylvestris. L’insetto sverna allo stadio di larva di terza e quarta età all’interno dei caratteristici nidi sericei che vengono intessuti sui rami dei pini. In primavera le larve riprendono l’alimentazione cibandosi degli aghi di pino.
Di solito le larve sono attive solo la notte, mentre di giorno si trattengono al riparo nel nido. In primavera le larve sono molto voraci e causano forti defogliazioni.
Giunte a maturità le larve abbandonano definitivamente il nido e si dirigono lungo il tronco verso il suolo in lunghe file.
Lungo il percorso ruderi di vecchi ricoveri riportano a tempi andati.
E finalmente giungiamo a destinazione…ecco il Santuario di Pietrasanta.
Furono i monaci Basiliani del vicino Cenobio di S. Giovanni Battista a scolpire, verso il 1200, sulla monolitica punta del monte Piccotta, la statua della Madonna formando un solo corpo con la nicchia incavata nella pietra. La cappella rupestre con una piccola abside semicilindrica dedicata alla Vergine, capace di contenere in origine appena poche decine di persone, fu in seguito più volte ingrandita. Della costruzione originaria rimane, oggi, solo una parte dell’abside. L’edificio è costruito ad una sola navata e caratteristico ne risulta lo sviluppo non essendo allineata al presbiterio, in quanto questo fu realizzato sul fermo della roccia, ad occidente, su un piano irregolare. Alla chiesa sono annessi alcuni locali una volta utilizzati come abitazione. All’esterno, a sinistra, accanto alla sacrestia, sempre sul picco della roccia si eleva il campanile a tre piani, con due campane. A pochi passi sotto il campanile c’è una sorgente da sempre ritenuta miracolosa.
I ragazzi stanchi ma soddisfatti…
come è consuetudine…
consumano una nutriente colazione con i prodotti tipici del Cilento. E’ un momento di aggregazione, di scambi di opinioni…di amicizia.
Di fronte il monte Bulgheria che imponente ci sovrasta.
E mentre i ragazzi cominciano a radunarsi per rientrare a scuola…scopro una campana.
Il Santuario della Madonna di Pietrasanta, in San Giovanni a Piro, fu scelto come Luogo Santo per la celebrazione del Giubileo straordinario della Misericordia, durante l’anno Santo indetto da Papa Francesco, iniziato il giorno dell’Immacolata Concezione (otto dicembre) del duemilaquindici e conclusosi il venti novembre del duemilasedici.
Mi avvio alla conclusione di questo articolo…con queste parole del Santo Padre che in occasione dell’anno giubilare scrisse: “La vicinanza del Giubileo Straordinario della Misericordia mi permette di focalizzare alcuni punti sui quali ritengo importante intervenire per consentire che la celebrazione dell’Anno Santo sia per tutti i credenti un vero momento di incontro con la misericordia di Dio. È mio desiderio, infatti, che il Giubileo sia esperienza viva della vicinanza del Padre, quasi a voler toccare con mano la sua tenerezza, perché la fede di ogni credente si rinvigorisca e così la testimonianza diventi sempre più efficace” .
“Il cammino della fede” prevede quattro itinerari da percorrere con gli alunni dell’istituto agrario di Sapri. Sono tre le discipline scolastiche: scienze motorie, scienze religiose e scienze ambientali che vedono impegnati i relativi docenti nell’illustrare i percorsi e accompagnare gli alunni verso la conoscenza del territorio, del camminare quale stile di vita sano e mettersi in contatto con la propria sensibilità e religiosità. Questo di oggi è il secondo itinerario: Maria SS. dei Martiri a Casaletto Spartano.
Lungo il percorso, ai bordi della strada, le primule di bosco…
ed eccoci all’edicola votiva …allo svincolo che conduce al Santuario.
Casaletto Spartano è un paese del Parco nazionale del Cilento e Vallo di Diano posto a 540 m s.l.m. Di origine medioevale il paese, secondo una leggenda locale, si sviluppò intorno all’antica contrada “Spartoso“, da cui potrebbe derivare il nome Spartano. L’abbandono del vecchio nucleo, sempre secondo questa vecchia leggenda, fu causato da un’invasione di formiche. Molto più verosimilmente il primo nucleo del paese sorse ai piedi del monte Difesa perché il luogo era ricco di acqua, essendo presenti in zona numerose sorgenti e un piccolo fiume.
Oggi Casaletto Spartano è costituito dai due principali centri abitati che sono la vicina frazione Battaglia ed il Capoluogo, più tutta una serie di contrade rurali, circa un trentina, sparse su tutto il territorio che ha una superficie complessiva di oltre 70.17 km². Casaletto Spartano e Battaglia sono divise dal corso d’acqua Rio di Casaletto e collegate tra di loro con alcuni sentieri. Il luogo maggiormente rappresentativo di Casaletto, è senz’altro “Il Capello“. Tale località si inserisce in un complesso sorgitivo contraddistinto da un elevato valore ambientale. La località prende il nome dalla cascata “Capelli di Venere” la cui denominazione deriva dalla rigogliosa crescita della pianta Capelvenere.
Ma ritorniamo a noi…lungo il percorso trekking, non mancano “spunti” per delle lezioni in pieno campo.
Lungo la salita si comincia a raccontare della Madonna dei Martiri…La chiesa ha origini remotissime che si perdono nella notte dei tempi, la si crede eretta dai monaci Italo-Greci o Basiliani intorno all’anno mille. Nei primi anni del milleseicento, appaiono, tra i documenti antiche notizie più particolareggiate, sita in montagna in località Aria del Castello o anche sopra le Rocche, fu dedicata a Maria SS. dei Martiri per ricordare la Madre dei Dolori associata alla Passione di Cristo e dei Martiri del Cristianesimo nei primi secoli e specialmente dei cristiani perseguitati dai barbari e dai saraceni nei secoli nono e decimo.
Prima di arrivare al Santuario troviamo “LA VIA SACRA”, progetto nato da un’idea di Nino Iudici, con lo scopo di creare un percorso “di fede” per coloro che si recano al santuario della Madonna SS. Dei Martiri. Una Via Crucis che, per decoro e bellezza artistica, bene si inserisce nel contesto del Santuario e valorizza l’unica via di accesso. Le quattordici stazioni, ricostruiscono e commemorano il doloroso calvario di Cristo. Ogni edicola è stata realizzata in muratura di pietra lavorata a vista, le immagini delle varie stazioni sono state realizzate mediante bassorilievo artistico su lastre di pietra del Cilento. I materiali scelti, oltre a garantire pregio all’opera e resistenza nel tempo, si inseriscono nel contesto paesaggistico circostante.
Ed eccoci arrivati. La chiesa ha subìto una serie di interventi, ma è soprattutto negli anni venti che è stata completamente restaurata; si presenta a tre navate, con tre porte di ingresso e sagrestia. L’antica icona in pietra della Madonna è risalente al quattordicesimo secolo. Davanti alla chiesa vi è un grande piazzale che facilita l’accoglienza dei numerosi pellegrini che durante i festeggiamenti (tredici maggio, quindici agosto, otto settembre) si recano presso il Santuario.
Le testimonianze votive dell’arte e della pietà popolare sono conservate in modo visibile e custodite nella purezza del cuore del credente.
Dopo aver ascoltato le parole di Don Simone Gentile…una pausa pranzo.
Non sono mancati i prodotti tipici portati dagli alunni….e così un momento conviviale.
Come la tradizione vuole…la “panedda prena”.
L’ubicazione geografica di un santuario non è mai casuale, ma risponde piuttosto a una serie di logiche, che si compiono in uno spazio territoriale. La «territorializzazione del sacro», dunque, permette di cogliere i bisogni fondamentali dell’uomo di sicurezza e di dominazione, ma anche dell’affidarsi a forze che hanno potenza maggiore.
Nell’ambito di una progettazione di percorsi trekking – culturali, destinata agli alunni dell’istituto superiore Carlo Pisacane di Sapri, rientra l’uscita didattica…destinazione Palinuro.
Lui è Giovanni Cammarano. Sarà una delle due guide che ci accompagneranno in questo percorso: Trekking – Sentiero della primula.
Anche questa volta mi ritrovo a documentare… ed è per questo che intervisto il Presidente Cammarano…
Prima di iniziare il percorso una visita all’antiquarium…
L’antiquarium è posto su uno strapiombo costiero a ridosso di una suggestiva cala in località Ficocella. L’edificio fu realizzato negli anni ’60 grazie all’interesse dell’Ente Provinciale per il Turismo di Salerno, al fine di dare una collocazione alla miriade di reperti archeologici rinvenuti per un succedersi di scavi a partire dal 1948.
L’antiquarium raccoglie suppellettili di ossidiana risalenti a 6000 anni fa circa, i resti di un antico insediamento preistorico individuato nel 1983, i corredi della necropoli di età arcaica che hanno restituito ceramica di tradizione ionica, ceramica attica a figure nere e ceramica di produzione locale tipica del Vallo di Diano con decorazione geometrica, adoperata, oltre che per contenere acqua o derrate alimentari, anche come cinerari dei defunti sottoposti a cremazione. Sono inoltre esposti i ritrovamenti di numerosi relitti di età ellenistica affondati nel mare di Palinuro.
Dopo aver visitato l’antiquarium ci avviamo verso la nostra destinazione…zona porto.
….ed ecco la Primula Palinuri Petagna.
La primula di Palinuro (Primula palinuri) è una piccola pianta endemica di alcuni tratti del Tirreno meridionale. Rarissima e a rischio d’estinzione, è il simbolo del Parco nazionale del Cilento, Vallo di Diano e Alburni, in Campania, in cui è più facile incontrarla. Considerata un paleoendemismo, cioè una specie endemica relitta, risalente almeno al quaternario antico, circa due milioni e mezzo di anni fa, la primula di Palinuro è probabilmente l’unica superstite di una famiglia di primule, originariamente diffuse sulle montagne dell’Italia meridionale, oggi l’unica primula che cresce in ambiente non montano.
Molto rara e a rischio di estinzione, questa pianticella cresce in piccole colonie abbarbicate lungo le falesie calcaree, preferibilmente esposte a nord e a nordovest, più fresche, sull’orlo delle cenge e nelle fenditure delle rocce, dei litorali della Basilicata, della Calabria e della Campania meridionale. In particolare, la si ritrova da Capo Palinuri alla Costa degli Infreschi, a Scalea, sull’Isola di Dino e Praia a Mare, a Punta Caina, e nel Parco Nazionale del Cilento, Vallo di Diano e Alburni, ma la sua diffusione è ridotta e frammentaria.
Pianticella molto rara e a rischio di estinzione, è protetta a livello regionale e comunitario, inserita nella lista rossa compita dall’Iucn, l’Unione mondiale per la conservazione della natura. Caratterizzata da un robusto rizoma, una folta rosetta di foglie un poco carnose, fiorisce in febbraio e marzo: i fiori, giallo dorati, con calice lungo, bianco, penduli, sono riuniti in un’infiorescenza sorretta da uno stelo robusto, alto una ventina di centimetri. Riuscire a vederla, è una gran bella soddisfazione, ovviamente senza raccoglierla.
Mentre i ragazzi sono intenti a fotografare la primula e gli ambienti …mi soffermo ad intervistare Cammarano, per meglio evidenziare questa specie…simbolo del nostro parco.
A questo punto iniziamo il percorso trekking vero e proprio. E’ un sentiero lungo circa cinque chilometri, ad anello, facile da percorrere, con un dislivello di +0 – 130 metri, percorribile in due ore e mezza. Inizia dal porto di Palinuro e conduce alla sommità del Capo ove sono situati il Faro e la stazione meteorologica. E’ un sentiero che fa godere di paesaggi marini suggestivi e maestosi. Si possono vedere torri che furono costruite in epoca aragonese per la difesa costiera dall’azione dei pirati saraceni e ancora oggi punteggiano le rocce strapiombanti nel mare blu. Più recenti le fortificazioni di Punta del Fortino e di Monte d’Oro (epoca napoleonica). Infine si scende verso il porto di Palinuro mediante un agevole sentiero immerso nella pineta.
La prima tappa punta del fortino francese…
Tante le specie vegetali lungo il percorso…
Attenta osservatrice…pronta allo scatto giusto… a cogliere l’attimo: Roberta del Medico – autrice di gran parte delle foto di questo articolo, che sentitamente ringrazio.
Ed eccoci al fortino di Monte D’oro…risalente ai primi dell’ottocento.
Sulla strada del ritorno ci siamo fermati ad ammirare lo scoglio del coniglio.
Nel Mito, l’episodio relativo a Palinuro viene descritto alla fine del Libro V dell‘ Eneide, nel quale Virgilio individua il punto preciso della vicenda: uno scoglio, riconducibile al tratto di costa campano del mar Tirreno, dinanzi all’omonimo capo, tra il golfo di Policastro e l’insenatura di Pisciotta, nella subregione attualmente chiamataCilento.
Naufrago dopo aver invocato invano i propri compagni, rimane per tre giorni in balia del Noto (vento) fino all’approdo sulle spiagge d’Italia, dove troverà ad attenderlo non la salvezza ma una fine crudele: catturato dalla gente indigena, viene ucciso e il suo corpo abbandonato in mare scambiandolo per un mostro marino.
Veniva così soddisfatta la richiesta di Nettuno, dio del mare, che nel momento stesso in cui accordava a Venere il proprio aiuto per condurre in salvo la flotta di Enea sulle coste campane, aveva preteso per sé in cambio una vittima:
« Unum pro multis dabitur caput. Una sola vittima per la salvezza di molti »
(Eneide, V, 815)
Palinuro, nel successivo Libro VI, vagando tra le anime degli insepolti, sarà protagonista di un triste incontro con Enea, disceso nel regno di Ade in compagnia della Sibilla Cumana. In quell’occasione supplicherà il suo condottiero di dargli sepoltura, esortandolo a cercare il suo corpo tra i flutti degli approdi velini (Elea-Velia).
« Aut tu mihi terram inice, namque potes, portusque require Velinos. »
(Eneide, VI, 365)
Sarà la Sibilla a dovergli rivelare che il suo cadavere non verrà mai ritrovato: la sacerdotessa tuttavia mitiga l’amarezza del nocchiero predicendogli che, perseguitati da eventi prodigiosi, i suoi assassini erigeranno un cenotafio da dedicare a lui e da onorare con offerte. Quel luogo avrebbe per sempre portato il nome Palinuro.
Ma lasciando il Mito…ci avviamo sulla strada del ritorno.
Il significato di trekking deve essere ricercato nel verbo inglese to trek, che significa fare un viaggio lungo, camminando piano. Un mix tra camminata in mezzo alla natura ed escursionismo.
La F.I.E. (Federazione Italiana Escursionisti) collega tra loro gruppi, associazioni e club in tutta Italia. Promuove l’escursionismo e le attività a contatto con la natura. Organizza corsi di formazione per accompagnatori escursionistici nazionali. Tramite le associazioni ad essa affiliate interviene nelle scuole ed accompagna nelle escursioni i diversamente abili. Organizza giornate nel nome dell’escursionismo. E’ la rappresentante italiana della Federazione Europea Escursionismo F.E.E. con il mandato di progettare, segnalare e mantenere in ordine i Sentieri Europei che attraversano l’Italia nelle varie direzioni. Essendo io, formato e tesserato, ho accolto prontamente la possibilità di accompagnare gli alunni del Pisacane in questa avventura organizzata in collaborazione con:https://www.facebook.com/groups/132863133536890/
E’ stata quasi d’obbligo una prima tappa a Rofrano, laddove nasce il fiume Faraone, che alimenta l’intera vallata del Mingardo. Abbiamo percorso l’itinerario naturalistico alla volta delle Fistole del Faraone, sotto la guida degli esperti escursionisti dell’Associazione: Carlo e Pasquale . Le Fistole del Faraone sono alle pendici del monte Raia del Pedale ” 1521 metri “, da queste si forma il fiume che a valle assume il nome di Mingardo. Ha una portata media complessiva di circa 580 – 600 litri al secondo.
Una natura incontaminata…laddove fuoriesce l’acqua…elemento fondamentale per la vita dell’intero ecosistema. Uno spettacolo unico…che ha interessato i ragazzi.
Lasciato Rofrano ci siamo avventurati nel percorso trekking ” La grava del Vesalo“. Di grande interesse speleologico e scientifico è uno dei fenomeni carsici più famosi agli speleologi europei. Il più grande inghiottitoio nel complesso appenninico Alburni-Cervati. Il percorso è un sentiero lungo quattro chilometri, con un dislivello di salita di centocinquanta metri, percorribile in circa due ore e con una difficoltà bassa.
Ancora spoglio il bosco, mentre i fiori con la loro effimera delicatezza e i colori sono il controcanto ideale per gli alberi, imponenti e statici . È anche l’equilibrio fra queste forme complementari a rendere il bosco de “la grava del Vesalo” un ambiente magico. I fiori, sono immensamente più piccoli degli alberi ma essendo numerosissimi e molto variopinti, insieme ai raggi di sole che filtrano, illuminano e ravvivano il sottobosco. Spesso passano inosservati perché si tende a camminare tenendo la testa alta per ammirare gli alberi ma basta gettare uno sguardo in basso, ai lati del sentiero o oltre, fra le rocce ed i tronchi degli alberi o lungo i fossetti dove scorre l’acqua o negli avvallamenti del terreno ed allora si è catturati dai loro colori. ed ecco il “bucaneve“…
Il bucaneve (Galanthus nivalis, catalogato da Linnaeus 1753) è una pianta perenne, erbacea ed eretta, della famiglia delle Amarillidaceae. Il nome del genere “Galanthus”deriva da due parole greche: “gala” (bianco come il latte) e “anthos” (fiore). Il nome specifico “nivalis” fa riferimento alla sua precoce fioritura in mezzo alla neve. I riferimenti storici al Bucaneve si perdono nella “notte dei tempi”. Viene chiamato “Stella del mattino” perché è uno dei primi fiori ad apparire nel nuovo anno. Anche le feste religiose (sia cristiane che pagane) fanno riferimento a questo fiore: è una pianta sacra e simbolica per la festa della Candelora (2 febbraio); invece in Imbolc (antica festa irlandese del culmine dell’inverno – 1º febbraio) si dice che il colore bianco del bucaneve ricorda allo stesso tempo la purezza di una Giovane Dea (festeggiata in questa ricorrenza pagana) e il latte che nutre gli agnelli.
Tra le foglie secche fanno capolino i “crocus” (comunemente detto croco), un genere di piante spermatofite monocotiledoni appartenenti alla famiglia delle Iridaceae. Sono piante erbacee perenni con foglie lineari e fiori a forma di coppa, di colore violaceo, giallo, bianco, a cui appartiene la specie comunemente detta zafferano (con gli stigmi rossi). Il nome del genere (Crocus) deriva dal grecoKròkos (c’è un esplicito riferimento a questo fiore nell ‘Iliade di Omero – Libro XIV, versetto 347) che significa “filo di tessuto” e si riferisce ai lunghi stigmi ben visibili nella specie più conosciuta (e coltivata) di questo genere (Crocus sativus). La prima documentazione dell’uso di questo nome lo abbiamo da Teofrasto di Efeso (Efeso, 371 a.C. – Atene, 287 a.C.), filosofo e botanico greco antico nonché discepolo di Aristotele.
La conoscenza di questi fiori va molto indietro nel tempo. Ciò è dimostrato dal fatto che persino la Bibbia nel Libro dei Cantici (4:14) vengono citati come piante aromatiche e odorose. Nell’antica Grecia si usavano per farne corone oppure si spargevano nei teatri o nei letti nuziali. Mentre nell’antica Roma si usava ornare le tombe con questo fiore come auspicio per una vita ultraterrena. Varie sono le leggende attorno al fiore del “Croco”. In una di queste Croco era un giovane innamorato della pastorella Smilliace che venne trasformato in detto fiore ad opera di Venere o in un’altra versione venne trasformato in fiore dal dio Ermes geloso della pastorella. In un’altra si racconta che Croco morì giocando con Mercurio e che dal suo sangue nacque il fiore. In un’altra ancora si racconta che il fiore del croco germogliasse nel momento in cui Paride dava il suo giudizio sulla più bella fra le dee.
Camminando lungo il percorso Trekking siamo tutti intenti a scoprire qualche altro fiore…ed ecco che quasi d’incanto appare ai nostri occhi la “Scilla italica“, con foglie allungate e strette, di un bel verde chiaro, e fiori con sei tepali azzurri uniti alla base. I fiori sono raccolti in un racemo dalla forma piramidale.
Ed ecco che siamo giunti all’inizio del percorco che conduce alla tappa finale del nostro viaggio: l’inghiottitoio.
E’ una zona ricca di acqua, come d’altronde tutta l’area già visitata. Tanti sono gli “abbeveratoi” per gli animali che troviamo lungo il cammino.
Un pallone lasciato a testimoniare il passaggio di ragazzi che spesso, particolarmente d’estate, fanno in questi boschi attività ricreative. Segno di una civiltà discutibile…per quanto i luoghi versano in uno stato di “cura“, non mancano segnali di abbandono di rifiuti.
Lungo il cammino si è potuto osservare la Primula comune (nome scientifico Primula vulgaris, catalogata da Huds 1762). E’ una pianta della famiglia delle Primulacee, che nasce spontaneamente nel sottobosco e fiorisce agli inizi della primavera. Nella letteratura scientifica uno dei primi botanici a usare il nome di “Primula” per questi fiori fu P.A. Matthioli (1500 – 1577), medico e botanico di Siena, famoso fra l’altro per avere fatto degli studi su Dioscoride, e per aver scritto una delle prime opere botaniche moderne. Dioscoride Pedanio (in greco: Πεδάνιος Διοσκουρίδης, Pedànios Dioskourìdes) è stato un medico, botanico e farmacista greco antico che esercitò a Roma ai tempi dell’imperatore Nerone.
I ragazzi sono letteralmente “rapiti” dalla nostra guida…intenta a raccontare del luogo …
Non mancano i “controlli” di noi accompagnatori, a verificare se il gruppo è tutto presente.
Ed ecco qualche “ranuncolo“…una pianta erbacea delle ranuncolacee ( Ranunculus acer ), velenosa, comune nei prati, con foglie palmatopartite, fiori terminali gialli e frutti ad achenio con becco ricurvo. Il nome generico (Ranunculus), passando per il latino, deriva dal greco (batrachion), e significa rana (è Plinio scrittore e naturalista latino, che c’informa di questa etimologia) in quanto molte specie di questo genere prediligono le zone umide, ombrose e paludose, habitat naturale degli anfibi. La denominazione scientifica attualmente accettata è stata proposto da Carl Von Linnè (1707–1778), biologo e scrittore svedese, considerato il padre della moderna classificazione scientifica degli organismi viventi, nella pubblicazione “SpeciesPlantarum” del 1753. I ranuncoli sono fiori semplici ma eleganti provenienti dall’Asia. La conoscenza di queste piante è molto antica. I turchi le chiamavano “fiori doppi di Tripoli”; mentre lo scrittore e filosofo romano Apuleio (125 – 170) le nominava come “erba scellerata” a causa della loro tossicità. Così con queste informazioni il botanico italiano Paolo Bartolomeo Clarici (1664 – 1725) introduce la descrizione del ranuncolo in un suo scritto.
Aspettando i ragazzi mi salta all’occhio la presenza del “pungitopo“… è un basso arbusto sempreverde con tipiche bacche rosse impiegate come ornamento natalizio.
Il Pungitopo è un piccolo arbusto sempreverde appartenente alle Liliacee. Possiede rizoma sotterraneo e fusto molto ramificato e tenace, striato longitudinalmente. I getti sono cilindrici, succosi, rossastri, con all’apice un gruppetto di brattee verdognole. Le foglie sono sostituite da numerosi cladodi sessili, appiattiti, ovatolanceolati, terminanti in un mucrone pungente. I fiori sono piccoli, verdastri, isolati o a coppie, inseriti al centro dei cladodi all’ascella di una piccola brattea, fiorisce in inverno nei paesi a clima caldo e altrove da febbraio ad aprile. Il frutto è una piccola bacca globosa di 10-15 mm di diametro, di colore rosso vivo, che matura nell’inverno successivo alla fioritura.
Tante le primule lungo il cammino…
Dopo aver camminato senza alcuna fatica e dopo aver seguito il corso dell’acqua (che dalla sorgente “fistole” arriva all’inghiottitoio per continuare il suo naturale percorso verso le viscere della terrao del mare…) eccoci giunti a destinazione.
Di grande interesse speleologico e scientifico è la grava del Vesalo, uno dei fenomeni carsici più famosi agli speleologi d’Europa. Rappresenta il più grande inghiottitoio nel complesso appenninico Alburni-Cervati. Un inghiottitoio è una cavità, generalmente a forma di imbuto, che si forma a causa del processo di scioglimento delle rocce carbonatiche (come i calcari, le dolomie, i marmi) rese solubili da una reazione tra acido carbonico (anidride carbonica in soluzione acquosa) e il carbonato di calcio di cui le rocce sono composte. L’erosione può assumere forme diverse: superficiale, come avviene per i campi solcati o nelle doline, o più profonda e sotterranea, come nel caso degli inghiottitoi. L’ampia voragine, costituita da un doppio pozzo di 43 e 100 metri al cui fondo si apre una caverna a galleria, nella quale si riversano le acque del torrente Silenzio in piena, è costituita da un susseguirsi di pozzi, cascate e laghetti, definiti cavernose Blanc, Lago Laurino, galleria delle marmitte, Galleria Luberns, Sala La Bruna, Sala del camino, Antro degli Opilionidi, Discesa Durante. La maggior parte di queste caverne sono visitabili solo dagli speleologi.
La notevole umidità e la particolarità del suolo hanno consentito lo svilupparsi di particolari forme di flora e fauna.
Un esempio è la salamandra pezzata. Facilmente riconoscibile per la sua colorazione nera con vistose macchie gialle. Raggiunge i 15–20 cm di lunghezza totale (coda compresa), e le femmine sono in generale più lunghe e grosse dei maschi. La pelle, liscia e lucente, è cosparsa di piccole ghiandole secernenti il muco che ricopre l’animale; il muco ha una funzione battericida (protegge la pelle dalle infezioni), riduce la disidratazione e ha un gusto repellente per gli eventuali predatori. Le tinte vivaci della pelle segnalano appunto che la salamandra non è commestibile: queste colorazioni appariscenti sono dette “colorazioni di avvertimento” (funzione aposematica). La salamandra frequenta ambienti boscati freschi e umidi (in particolare quelli di latifoglie) attraversati da piccoli corsi d’acqua, spesso fondamentali per la riproduzione. Anche la struttura e le caratteristiche dei corsi d’acqua nei quali avviene la deposizione delle larve giocano infatti un ruolo molto importante nel determinare la distribuzione della specie. Corsi d’acqua poco profondi, dall’andamento naturale, con ricchezza di rifugi e substrato ben diversificato hanno maggiori probabilità di ospitare questo urodelo.
Anche la qualità dell’acqua è importante. La salamandra depone infatti solitamente in torrenti poco o per nulla inquinati con ampia disponibilità di macroinvertebrati (crostacei, larve di insetto ecc.) di cui le larve si nutrono. In alcuni casi la salamandra utilizza per la deposizione anche lavatoi, vasche e piccoli stagni alimentati da sorgenti che garantiscono un livello di ossigenazione adeguato. Inoltre la salamandra (essendo notturna) esce la sera, o di giorno se ci sono piogge molto forti.
Salta agli occhi la Cardamine kitaibelii, nome volgare: Dentaria di Kitaibel (famiglia delle Cruciferae). Si può confondere con C. enneaphyllos e C. heptaphylla.
La dentaria di Kitaibel è una specie delle montagne dell’Europa meridionale presente in tutte le regioni dell’Italia continentale, salvo che in quelle del nord-est e in Puglia (la presenza in Valle d’Aosta è dubbia). Cresce in faggete umide, spesso nelle forre e in aree con forte piovosità, su terreni piuttosto freschi e ricchi in sostanza organica, tra 400 e 1600 m circa. Il nome generico deriva dal termine greco ‘kárdamon’ che designava il crescione (Nasturtium officinale), molto simile alle Cardamine con foglie pennate; la specie è dedicata al botanico ungherese P. Kitaibel (1757-1817). Forma biologica: geofita rizomatosa. Periodo di fioritura: aprile-luglio.
Siamo alla conclusione del percorso trekking. I ragazzi continuano a fare domande sul luogo, e Carlo la nostra guida parla del brigante Tardio e della leggenda che vuole che trovò la morte nell’inghiottitoio. Il brigante – partigiano del Cilento Giuseppe Maria Tardio nacque a Piaggine Soprane nel Principato Citra il 1° ottobre 1834 da Paolo e Catarina Alliegro di Rofrano. Ma questa è altra storia che va approfondita …magari un’altra volta.
E così… ci avviamo sulla via del ritorno a scuola.
Ho cercato di raccontarvi quanto da noi vissuto. Mi auguro di aver trasferito delle nozioni e delle emozioni.